Pensieri liquidi
Luglio 2019
Giorni fa a Milano ho assistito con piacere a un concerto della stagione Rondò 2019 incentrato sulla vocalità contemporanea e ideato da Alda Caiello e Divertimento Ensemble, una bella occasione per aggiornarsi su necessità, tecniche, innovazioni e motivazioni dell’uso della voce in musica oggigiorno.
Sembra un tema scontato ma non lo è: l’essere umano canta e si esprime dalla notte dei tempi, fischietta e modula le frequenze emesse dalle corde vocali che si tramutano in vox cordis; è dunque uno strumento vivente, ma anche un animale sociale che abita uno spazio fisico e che ha sviluppato una lingua articolata ad estremamente referenziale. Quando si scrive per voce si affrontano problemi che non si hanno con uno strumento “tradizionale”, si tirano in ballo langue e parole, la maschera e la scena, la semiotica e la fonetica, la grammatica generativa e i gradi di comprensione di un testo, quando presente.
Lo sapevano bene i compositori delle avanguardie del dopoguerra: Luciano Berio ad esempio, in gran parte della sua produzione ha indagato a fondo la struttura linguistica del testo e le “esplosioni” del significante con i lavori dedicati a Cathy Berberian. Col passare degli anni l’interesse per questo ambito di ricerca non si è affievolito: qualche anno fa ai corsi estivi di Darmstadt, Helmut Lachenmann disse «se si tratta la voce come uno strumento è facile, ma essa è un’altra cosa…».
Lo stesso anno di Lachenmann c’era Georges Aperghis, e un giorno mi trovai per caso ad accompagnarlo a piedi alla stazione dei treni, che non riusciva a trovare. Ovviamente per riverenza nei suoi confronti, nel tragitto mi limitai ai convenevoli e non mi avventurai in discorsi musicali; eppure mi sono sempre divertito a immaginare che le difficoltà del Maestro a rintracciare la corretta via per la stazione, seppur semplice e lineare, fossero connaturate in qualche modo alla struttura multiforme delle sue composizioni per voce (cfr. le celebri Récitations) incentrate su frammenti testuali (sillabe, fonemi) che si ripetono, si intrecciano vorticosamente e si ricombinano in enunciati che estendono “a ventaglio” i significati, in una sorta di “mondo di mezzo” in cui la voce alterna sprazzi di significato a momenti di completa immersione nel puro significante.
Nel corso dei miei studi trovai che nel canto gregoriano, genere apparentemente lontanissimo dal mondo di Aperghis e dalla sperimentazione, era possibile rintracciare la stessa cura al particolare fonetico-sintattico di molta musica contemporanea. Nei quasi dieci anni che trascorsi come cantore presso la Schola Gregoriana “Benedetto XVI” di Bologna diretta da Dom Nicola Bellinazzo presi coscienza di come la melodia gregoriana non era un semplice “rivestimento” di un testo preesistente ma piuttosto una sorta di naturale “amplificazione” del materiale fonetico della parola, resa più vivida e lucente da volteggi vocali che la magnificano al pari delle lettere miniate dei manoscritti. Dalle fonti adiastematiche più antiche affiora una concezione della musica come una sorta di “corpo sonoro” estremamente connaturato con la parola stessa, sostenuto e articolato secondo il respiro naturale della voce, in cui testo e melodia sono indissolubilmente legati e dettano insieme la formalizzazione del percorso ritmico, e dove la struttura del canto è finalizzata alla proiezione spaziale di un suono composito, estremamente ricco e differenziato al suo interno, per certi versi opposto all’idea di cantus planus che la tradizione ci ha consegnato.
I miei Liquid Preludes, eseguiti da Elisa Bonazzi in prima assoluta nel concerto milanese conservano tracce di questi percorsi, apparentemente autonomi ma che a volte si incontrano e si infrangono come onde, generano riflessi frequenziali e nuove prospettive, ripensano l’antico in chiave di liquidità contemporanea. Allora forse c’è ancora tanto da scoprire tra le pieghe di senso e significato, a patto di “immergersi” completamente nel suono e scrollarsi di dosso rigide categorie come il diktat della sperimentazione vocalica ad ogni costo da un lato, o il tabù della comprensibilità testuale in nome di una non precisata “comunicabilità” dall’altro.
Dopo tutto, per dirla con Beckett, “there’s never an end for the sea”…