Hommages... alla Scala?!
Novembre 2018
Dieci anni fa pubblicai per Miraloop Records i 5 Hommages per chitarra.
All’epoca impazzivo per Hommage pour le tombeau de Debussy composto da Manuel de Falla, un vero must per i chitarristi, perché in una forma estremamente congeniale per la chitarra il maestro spagnolo celebrava la grandezza del collega francese appena scomparso alludendo a proprio modo a timbri e armonie debussyane, pur senza perdere la propria cifra stilistica.
Così un po’ per gioco e un po’ per imitazione mi venne l’idea di dedicare anch’io delle brevi composizioni a dei compositori che avessero scritto per chitarra e che mi avessero influenzato, anche solo per un particolare accordo, una originale visione della musica, un atteggiamento compositivo o altro.
Al contrario di de Falla, però, io non avevo un vero e proprio stile. Avevo da tempo digerito la tecnica di Donatoni, Berio e Ligeti, frequentavo saltuariamente la musica di Sciarrino, curiosavo tra gli spettralisti, mi guardavo un po’ attorno.
Nel 2007 volai a Darmstadt per seguire lezioni con Lachenmann, Furrer, Hosokawa, Aperghis: ognuno di loro aveva uno stile originale che poteva piacere o meno, ma che rispettava una propria idea personalissima della musica, una propria convinzione. La sera si parlava con gli amici delle ultime tendenze: neocomplessità, postminimalismo, spettralisimo, mondi estremamente lontani tra loro, erano suppergiù i principali riferimenti.
A quale idea della musica mi sentivo più vicino? A quale santuario dedicare le numerose ore di studio e applicazione quotidiana? Ogni volta che mi “buttavo” a capofitto nel mondo, che so di Grisey, ecco aprirsi uno squarcio di interesse che richiamava la perizia strumentale di un altro autore, fino magari a portare la ricerca all’estremo e buttare via il tutto al primo ascolto di un’intuizione geniale di Cage.
Più studiavo e più mi sembrava di cercare in un pozzo senza fondo e le mie composizioni originali erano eclettiche: un’amalgama di diverse tendenze.
A quel tempo YouTube non aveva ancora invaso con la sua onnipresenza il nostro vivere quotidiano e si mantenevano squarci di sano appetito musicale: online si poteva trovare al massimo un video di un celebre compositore di musica contemporanea, non certo tutta la sua produzione perlopiù in molteplici versioni ed esecuzioni, come accade oggi.
Un giorno incappai casualmente in una ripresa di un pezzo brevissimo per chitarra di György Kurtag che mi colpì molto, subito lo trascrissi e ne studiai intervalli, stile, struttura. Era al contempo classico e estremamente moderno perché aveva la coerenza di Webern ma il mistero di Scelsi: suono e struttura erano fortemente coesi (a Darmstadt Lachenmann aveva tenuto una conferenza proprio su Struktur e Klang). Con de Falla nell’orecchio e il nuovo autore “scoperto” scrissi rapidamente i miei Hommages a 5 compositori diversi: il primo, a Kurtag, apre la raccolta e condiziona tutti gli altri grazie a una tecnica intervallare che fa da riferimento articolatorio e dalla quale emergono prolungamenti e risonanze potenziate dalle corde a vuoto; in questo modo la “grammatica” si affievolisce all’affiorare di un contenuto sonoro sempre cangiante, mentre la diteggiatura assume valore fondante dell’operazione. Fu un momento di svolta per me, del quale presi coscienza solo diversi anni dopo, quando il mio stile cominciò a consolidarsi in direzioni più “materiche”.
Ieri sera a Bologna il mio amico e regista Antonello Pocetti ha messo in scena Psicosi Notturne, un adattamento da “Psicosi delle 4.48” di Sarah Kane, con scene e luci di Antonino Viola e Rosario Di Paola, i costumi di Pietro Pecoraro, due attori bravissimi (Walter Giattino e Manuela Magli), musiche mie tra le quali gli Hommages.
Il testo è un classico del teatro in-yer-face britannico: frasi dirette, secche, taglienti, disperate, brevi incisi attorcigliati su loro stessi. Gli Hommages appaiono al centro dello spettacolo a contrappunto di movenze geometriche e sembrano risonare per simpatia nei respiri degli attori. Prestando attenzione al copione mi è venuto in mente Beckett e la sua ricerca con gesti semplici e parole concrete, spesso beffardamente contraddittorie a pura espressione del vuoto (tornato a casa e volendo sapere di più sulla parabola della Kane ho trovato questo articolo, a conferma delle mie impressioni). A fine spettacolo sono rimasto soddisfatto della nuova “vita” di questi brevi pezzi, una collocazione con funzione giocoforza secondaria rispetto a testo e attori, trattandosi di musica di scena, ma curiosamente calzante.
Per coincidenza, proprio in questi giorni al Teatro alla Scala c’è un grande evento: la prima di Fin de partie, unica opera che il novantaduenne Kurtag ha composto, dopo una gestazione di diversi anni, su testo celeberrimo di Beckett.
Sono uscite le prime recensioni, non tutte entusiaste (cfr. ad esempio qui, qui o qui); per vari motivi, il testo di Beckett è estremamente efficace a livello puramente teatrale ma risulta arduo da trasportare in un’opera di stampo tradizionale per assetto, contesto e durata. Non solo, il problema del fare opera oggi, accennato nel mio post precedente permane per chiunque, anche per i colossi: qualcuno ha affermato che Fin de partie di Kurtag è un capolavoro, ma del Novecento.
Questo colpo forse non proprio ben assestato da Kurtag non scalfisce di certo il suo status di icona fondamentale nella storia della musica. La sfida improba che ha tenuto occupato il maestro ungherese negli ultimi anni e le difficoltà di recezione connesse al prodotto finale non fanno altro che rendere il nostro più umano, più vicino a chi vive con la stessa intensità le stesse problematiche, seppur lontano da palcoscenici stellari.
Nel mondo multiforme e contortamente mirabolante del web, ove basta un link per annullare tempi e spazi, mi diverto a sognare gli Hommages alla Scala e Kurtag qui accanto a me, cui chiederei volentieri: “György, perché un’opera?”