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La stessa barca: perché un'opera


Ottobre 2018


Esattamente un anno fa, alla Biennale di Venezia 2017, andava in scena La stessa barca, un lavoro relativamente breve che ebbe però bisogno di ben 2 anni di gestazione. Il tema, allora nuovo per le scene, oggi è ormai all'ordine del giorno, forse un po' consumato da cronaca televisiva, indagini della magistratura, strumentalizzazioni politiche e quant'altro. Eppure il nucleo espressivo di quest'opera da camera a mio parere è ancora forte, perché la struttura drammaturgica e audio-visiva non si riduce al melodramma, non cede al lacrimevole né si limita esclusivamente a denunciare il traffico di esseri umani. La stessa barca trasferisce su noi stessi il dramma che investe una generazione e un periodo storico: la precarietà lavorativa, l'incertezza esistenziale, l'assenza di una visione politica ed etica ben direzionata, lo smarrimento in un mondo sempre più smaterializzato che considera il singolo non come individuo ma mero numero da sfruttare. La tragedia dei migranti si sovrappone alla nostra perché in viaggio siamo stati e saremo tutti, perché chi (e se) giunge a riva continuerà a cercare incessantemente una corda per reggersi dagli scossoni di una vita liquida, come si canta sul palco, mentre in platea ci si accorge poco a poco che la barca della finzione è sempre più reale e ci ingloba.


In occasione della "prima" un giornalista mi fece una domanda, anzi la domanda, che attanaglia chiunque orbiti nel settore: che senso ha comporre un'opera lirica oggi?


Una domanda doppiamente tagliente, perché prima di capire se ha senso o meno comporla, bisognerebbe capire cos'è un' "opera" oggi, il che aprirebbe un vaso di Pandora infinito, fatto di storia del teatro, avanguardia musicale, sperimentazioni novecentesche, innumerevoli tentativi di "smascherare", ripensare, riaffermare, denunciare, negare, salvare, attualizzare, rimodulare il vecchio teatro d'opera, sfiorando riferimenti imprescindibili quali Schoenberg, Nono, Maderna, Aperghis, Kagel, Goebbels... un mare magnum che non ho certo modo di affrontare in questa sede, al massimo posso fornire a chi fosse interessato qualche spunto per approfondire.


Forse è meglio restringere il campo e cercare di spiegare cos'è per me un'opera e di conseguenza chiarire in prima istanza a me stesso se ha ancora senso oggi insistere in questa direzione.


Sin dai primordi l'opera è punto di convergenza di arti e esperienze eterogenee: musica, scena, recitazione, poesia, danza. Col passare dei secoli il carattere eclettico dell'opera non è scomparso: che sia Musikdrama o "teatro di idee", grand opéra o happening, lavoro di squadra o frutto di un'unica mente creativa, in teatro all'italiana o sul web, che si canti lirico o meno, qualunque ruolo abbia l'elettronica e l'informatica, l'elemento imprescindibile e più caratterizzante di un'opera, ieri come oggi, è a mio avviso proprio la sua natura "ibrida".


Apparentemente può sembrare che tra le forme musicali il teatro musicale sia la meno "pura", che il contenuto linguistico passi in secondo piano, magari esposto al rischio di essere "schiacciato" da un impianto narrativo preponderante o da un ingombrante apparato scenico. Al contrario, nell'opera e in generale nelle forme teatrali a vario contenuto multimediale le strutture musicali hanno la possibilità di raggiungere più facilmente il destinatario in quanto godono di una dimensione "estesa" che ne favorisce la comprensione e ne illumina la funzione. Nella mia concezione l'opera è dunque un vero e proprio "atto d'amore" verso la musica assoluta, anzi credo lo sia per tutte le arti coinvolte in quanto ogni singola disciplina - per mezzo delle altre - valorizza le proprie peculiarità.


Ecco per me il senso più profondo dell'opera e del teatro musicale in ogni sua declinazione: un atto di condivisione del molteplice a beneficio delle singole parti. Non solo: in un mondo abituato al multimediale come il nostro, disparate forme che conservano queste caratteristiche possono - più che altre - essere veicolo privilegiato per scorgere le esigenze recondite dell'artista, ponte virtuale per collegare vissuti esperenziali diversi, porte aperte su scenari estetici insondati.


Quando ancora La stessa barca non esisteva ma era solo abbozzata nel suo argomento, scaturito dalla lettura di Bauman, Giorgio Battistelli chiese a me, Antonello Pocetti e Antonino Viola perché volessimo fare di questo soggetto proprio un'opera e ad esempio non un radiodramma o semplicemente un pezzo per voce e strumenti. Rispondemmo a istinto che sentivamo sarebbe stata la via giusta, anche se non riuscivamo a focalizzare in maniera compiuta il concept, ancora alle prese con molte idee da valutare.

Oggi posso dire che La stessa barca trova piena espressione proprio in virtù di una struttura fortemente composita, inattuabile ad esempio al di fuori di un certo contesto operistico "tradizionale". Nella partitura le "corde spettrali" dalle quali si distaccano arabeschi musicali e che corrispondono alle gomene che inglobano la platea in un organismo scenico unitario si contrappuntano a percorsi registici tesi e geometrici, mentre le proiezioni video direttamente sulla scenografia moltiplicano le dimensioni temporali e favoriscono la sovrapposizione noi/loro: quel concept che inseguivamo sin dall'inizio, fortemente incentrato sulla liquidità esistenziale non sarebbe nato sotto forme diverse.


Per concludere, oggi l'opera ha senso se e solo se è necessaria in un determinato momento e per una specifica esigenza espressiva, e se i suoi autori riescono a convogliare a pro del teatro musicale le proprie ricerche, d'altronde Berio sosteneva: "io il teatro d'opera non lo ignoro: è l'unico spazio - meglio cornice - tecnologicamente affidabile, anche se molto condizionante"...



























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